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VIA DA LAS VEGAS
(LEAVING LAS VEGAS)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 22 aprile 1996
 
di Mike Figgis, con Nicolas Cage, Elizabeth Sue, Julian Sands (Stati Uniti, 1995)
 
Una storia come questa è una cosa seria (ed oltretutto autobiografica, in quanto ispirata al romanzo di un giovane inglese, John O'Brien, alcolizzato, e suicida a 34 anni, due settimane dopo aver ceduto i diritti al regista...): l'amore disperato (ma certo, sarebbe meglio dire la discesa agli inferi) di uno sceneggiatore ingurgitante una quantità inverosimile d'intrugli purché alcolici, con la prostituta di lusso, regolarmente pestata dal magnaccia lituano Julian Sands, ed alla più che legittima ricerca di un minimo d'affetto.

L'autore di STORMY MONDAY (l'abbiamo visto in quel suo primo, accattivante lungometraggio girato nella nativa Newcastle con Sting, poi nell'assai meno felice migrazione ad Hollywood con AFFARI SPORCHI e MR. JONES) è qualcuno che idolatra la cinepresa, adora la musica e, soprattutto rifugge dalle mezze misure. Sceglie la città di CASINO', luogo nel quale tutti i bilanci di fine secolo di un'America d'azzardo sembrano possibili: e perché no. Sceglie un tono che gli va a pennello: quello d'immergere una storia assoluta come questa nella tragica spensieratezza delle ben note insegne al neon. Ed in un mare di musica, quasi si fosse proprio in un musical (da quella da lui composta ed interpretata, a quella che canta il suo amico Sting, a del godibilissimo, classico jazz soprattutto vocale): pure qui, perché no. Visto che gli serve a sdrammatizzare una vicenda altrimenti micidiale; ed a raggiungere -nei momenti migliori- un'unità stilistica, un'amalgama ambientale che induca alla logica lo spettatore un tantino aggredito dal suicidio a colpi di Bloody Mary di Nicolas Cage. E dai racconti porno-soft (proprio come le immagini; poiché sappiamo che ad Hollywood si strizzano soprattutto il cervello per alludere un massimo e mostrare il minimo; pena la censura agli indispensabili minorenni) sulle eiaculazioni indistinte alla quale la povera Elizabeth Sue è quotidianamente confrontata.

Ecco, ha una fortuna, Mike Figgis: quella di ritrovarsi questi due ammirevoli attori, e di essere capace di dirigerli. Cage è disinvoltamente tragicomico (come tutti gli attori confrontati al ruolo-principe dell'ubriacone: che permette miracoli d'equilibrio tra la comicità degli effetti del caso, e gli eccessi istrionici - dai barcollamenti iniziali all'apoteosi dei delirium-tremens- del rovescio drammatico della medaglia); ma il meglio è nella praticamente sconosciuta Elizabeth Sue, che invade dapprima lo schermo con il suo sfrontato erotismo da bodybuildata, poi con un sensibilissimo adeguamento al ruolo pure ingrato d'infermiera-angelo custode in vertiginosa caduta dagli altari della call-girl in latex. Ma pure ha una disgrazia, il nostro: di portarsi appresso uno stile abile quanto strabocchevole, avido di colori e musiche come di effettini brillanti che finiscono per essere soltanto gratuiti. Iniziatosi allora come una versione musical del Film sull'alcolismo, THE DAYS OF WINE AND ROSES, di Blake Ewards, LAS VEGAS finisce per perdersi nelle seduzioni amatoriali delle interminabili carrellate sui boulevard variopinti della città del gioco. Perché, come si può dire di queste redenzioni nell'assoluto filmando all'infinito sui pesci rossi dell'acquario, piuttosto che sulle insegne di casinò sfuocate o i cubetti di ghiaccio controluce che fanno tanto NOVE SETTIMANE E MEZZO? Certo, si può: ma poi si finisce a quel modo. Con una scena -ormai soltanto ridicola - dell'ultimo respiro del protagonista che si confonde con il suo primo rantolo d'amore: ovviamente nella prima luce del mattino, che filtra tra la chioma bionda e l'ammirevole fondoschiena dell'encomiabile Elizabeth


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